Borgo Val di Taro 15 ottobre 1910 – 26 luglio 1974
Il murales di Julian Centeya è stato realizzato da Stefano Fedolfi (L’orco BLU su Facebook). Pittore, grafico, scultore e ceramista nato a Parma nel 1962 possiede un laboratorio a Borgotaro. Alcune recenti sculture eseguite dal vivo sono esposte anche a Berceto (Monumento alla Coscienza) e Fornovo (Il Pellegrino).

Da AMLETO ENRICO VERGIATI a JULIÁN CENTEYA
Come il lessico popolare di Buenos Aires trova profonde radici a Borgo Val di Taro.
Sabatino Alfonso Annecchiarico*
Se si ignora il nome dell’autore del primo poema scritto in lunfardo, il lessico popolare di Buenos Aires, lo stesso non può dirsi dei numerosi poemi di Julián Centeya, uno dei notabili della scrittura lunfarda, di raffinata poetica quanto brillante nella parlata porteña, cioè di Buenos Aires. Il vero nome di Julián Centeya è Amleto Enrico Vergiati, nato in Italia nel 1910 nella terra di Arturo Toscanini, di Giuseppe Verdi, di Luigi Illica. Il paese natale è Borgo Val di Taro, provincia di Parma: dove la popolazione seppe resistere tenacemente al fascismo. Fu figlio di Carlo Vergiati, un giornalista anarchico che scriveva per il quotidiano socialista Avanti e di Amalia Ricci, ostetrica. Le idee politiche di suo padre Carlo, dure e contrastanti con i tempi trascorsi tra la fine della Prima guerra mondiale e l’incursione del fascismo nella scacchiera politica degli anni Venti, lo costrinsero a esiliarsi all’estero con tutta la sua famiglia. Trovò rifugio in Argentina assieme a tanti anarchici di mezz’Europa, tra questi il noto anarchico italiano Severino Di Giovanni, che emigrò in Argentina nel 1922 con la moglie Teresa Mascullo e i tre figli. Carlo Vergiate sbarca a Buenos Aires nell’aprile dello stesso anno dell’arrivò Di Giovanni, con moglie, due figlie Pierina e Fanny e Amleto, il fratellino minore con dodici anni non compiuti; oltre loro, anche il cane di nome Pri-Pri. Da quell’anno, 1922, l’Argentina fu il paese che formò Amleto fino farlo diventare Julián Centeya, tra i grandi scrittori argentini, di raffinata poetica e uso profondamente arguto del lunfardismo, carico di vocaboli da lui inventati con profonde radici originarie della sua terra natale. Amleto Enrico Vergiati ebbe una vita dura. Arrivò povero in Argentina, visse tutta la sua vita da povero e morì nella medesima condizione: fu un “resistenzialista che imparò a resistere duramente a tutto”, disse lo scrittore César Tiempo.1 Fu di carattere evidentemente inquieto, sicuramente come il padre Carlo. Per la sua indole focosa fu espulso dalla scuola secondaria al terzo anno, fatto che non lo inquietò. Imparò i segreti della vita frequentando l’altra scuola, quella della strada, dei bar, dei tuguri, dei bordelli, e della notte porteña arrabalera e tanghera.2 Fece scuola in ogni luogo dove c’era gente del popolo. Fu quella la scuola che gli diede il titolo di poeta dopo avergli insegnato i misteri del lunfardo. Buenos Aires divenne la sua città maestra e i quartieri Boedo e Pompeya furono quelli che amò di più, considerati da lui come secondi luoghi di nascita. Amleto ripeteva sempre, quasi a modo di sfida: “Vediamo se riuscite a capirlo, che sono di Boedo”. A questo proposito, scrisse nel 1938 il testo del tango Julián Centeya, da cui deriva lo pseudonimo che lo rese famoso:
Me llamo Julián Centeya
por más datos soy cantor.
Nací en la vieja Pompeya,
tuve un amor con Mireya.
Me llamo Julián Centeya,
su seguro servidor.3
Servendosi sempre della più alta scrittura lunfardesca fu prolifero nella sua arte: scrisse numerosi poemi, tra questi Sigo pensando en vos, negro, dedicato a Louis Armstrong che si aggiunsero ai numerosi testi di tango, quasi tutti con musica di compositori figli d’italiani: Enrique Mario Francini, Enrique Pedro Delfino, Lucio Demare e Hugo del Carril, tra gli altri. Fu anche autore di libri scritti sempre in lunfardo: El recuerdo de la enfermería de Jaime, del 1941, che firmò con lo pseudonimo di Enrique Alvarado; La musa del barro, del 1969 e il romanzo El vaciadero, del 1971. Con una prolifera e accurata produzione letteraria e con un’evoluta scrittura lunfarda, ridisegnò una nuova professione in argentina: il poeta lunfardo di Buenos Aires. Uno dei suoi più noti e commoventi poemi è Mi viejo (Mio vecchio), dedicato a suo padre Carlo. Nel poema lo descrive come un lavoratore italiano che ha sudato molto nella vita, non come lui, uno sfaticato che vive dei suoi versi e si considera un eccentrico.
Verlo a mi viejo
un tano laburante
que la cinchó parejo,
limpio y largo
y minga como yo
un atorrante
que la va de “sover”.
Lo ricorda come il falegname argentino, poiché per questioni di lingua e di economia familiare non poteva esercitare la vecchia professione lasciata in Italia: il giornalismo. Lo ricorda come uomo grande, bonaccione, siempre polenta, sempre in gamba.
El viejo carpintero fue mi gringo
grandote, bonachón, siempre polenta
Come un mulo tenace portò avanti il carro e sopportò di tutto nella vita, persino l’espatrio e qui morì, dove riposa addormentato il mio vecchio. Il povero italiano lavoratore un giorno se ne andò e ci lasciò un ricordo lacerante.
como un tungo tenáz cinchó de tiro
todo se lo aguantó: hasta el destierro
y aquí palmó
aquí yace adormecido
mi viejo, el pobre tano laburante
se las tomó una noche de descuido
y nos dejó un recuerdo lacerante
Centeya scrive un altro poema in lunfardo, La musa mistonga, “La musa povera”, dove canta in lunfardo la sua tristezza di uomo e va per la vita con la sua musa errante,
Yo canto en lunfa mi tristeza de hombre
y ando en la vida con mi musa rante.
Julián Centeya ci avvisa che La musa mistonga è nata con lui nell’incrocio di due vie di Buenos Aires: Boedo e Chiclana, dove lei si è ammaestrata nell’azzardo della vita. Mai arrabbiata, sempre al suo fianco trascorre la giornata dove le cose della vita a lui vanno come devono andare, altalenante, lo stesso per lei: un giorno in soffitto e un altro nell’abisso. La musa mistonga è la sua donna perfetta, si accontenta di ciò che ha e non si lamenta mai ed è sempre al suo fianco a tirare avanti. Centeya finisce il poema La musa mistonga -forse il suo alter ego- con una classica battuta del suo repertorio: “Lei è così, ladruncola attaccabrighe ed io, un vagabondo sfaticato”.
Nació conmigo allá en Boedo y Chiclana
y se hizo mansa en juego de palmera.
Nunca una bronca, siempre cadenera,
vivo con ella muy de la banana.
Me fue como me fue y a ella lo mismo,
una vez el altiyo, otra el abismo,
conforme con lo que es, nunca rezonga.
Fratela con mi suerte la cinchamos.
¡Pasaos de media raya la llevamos!
Sos mi nami mejor, Musa Mistonga.
Ella es así, maleva, yo atorrante.
Julián Centeya registra nel 1963 Entre prostitutas y ladrones, “Tra prostitute e ladri”, una raccolta di poesie dedicate al mondo sommerso della città, scritta e recitata solo per il pubblico adulto: un capolavoro poetico della lunfardia.4 Nel 1971 scrisse il suo unico romanzo, El Vaciadero, “La discarica”. Un romanzo che racconta la vita di uomini, donne e bambini costretti per povertà a frugare nei rifiuti delle discariche prima che fossero inceneriti. Julián Centeya sostenne sempre che lo scrittore deve essere un soggetto sociale profondamente compromesso, e per scrivere deve vivere, altrimenti si addormenta sulla menzogna letteraria. Per la sua visione tragicamente realistica della società, lo chiamavano l’uomo grigio di Buenos Aires. Il notabile della poesia lunfarda, Julián Centeya, l’uomo grigio di Buenos Aires o, come anche fu ribattezzato, l’uomo che inventò Buenos Aires morì nel 1974 in un geriatrico di Buenos Aires: solo, con tutta la sua ricca povertà. Fu all’alba del 26 di luglio.
* * Prof. Sabatino Alfonso Annecchiarico Docente e ricercatore presso Università degli Studi dell’Insubria, Varese-Como. Coordinatore Emerico della Rete di Scienziati Argentini in Italia del Programma RAICES del Ministero della Scienza, Tecnologia e Innovazione della Repubblica Argentina. Scrittore e giornalista iscritto presso la FARNESINA e socio della Stampa Estera in Italia.
1 Cit. in Centeya, J., La musa del barro. Versos de la lunfarda porteña, César Tiempo (Ed), Editorial Quetzal, Buenos Aires 1993, p. 15. César Tiempo, pseudonimo di Israel Zeitlin. Scrittore, giornalista, editore, drammaturgo nato a Ekaterinoslac, Ucrania nel 1906. A un anno d’età arriva con i suoi genitori in Argentina, dove prende la cittadinanza nel 1924. Morì a Buenos Aires nel 1980.
2 Arrabales sono i quartieri della città solitamente periferici di modeste case popolari.
3 “Mi chiamo Julián Centeya / se volete sapere di più, sono cantante. / Sono nato a Pompeya, / ho avuto un amore con Mireya. / Mi chiamo Julián Centeya, / il vostro servitore”.
4 Il brano Entre prostitutas y ladrones è stato registrato su nastro magnetico e pubblicato e distribuito da Ultrasoun di Buenos Aires, 1963